Si allunga la lista degli attacchi alla salute umana provenienti dal mondo animale: il Covid19 non è che l’ultimo di una lista di problemi sanitari ai quali ci stiamo pericolosamente abituando. L’attenzione ora è inevitabilmente focalizzata sull’effetto del problema, è naturale, occorre lavorare a un vaccino, curare, arginare, occorre far fronte alle difficoltà che il nostro sistema sanitario sta affrontando. Analizzando tuttavia gli accadimenti con sguardo più ampio, risalendo alla causa, insomma, sono due i temi che emergono di prepotenza: la catena alimentare che unisce uomo e animale è un problema non semplice da gestire; le nostre scelte nutrizionali non hanno subito nel tempo cambiamenti significativi, nonostante le evidenze acquisite, nonostante l’avvicendarsi di virus quali Aviaria, Sars, Mers, Suina, Ebola.
La presenza dell’uomo su questo Pianeta è significativa, siamo davvero tanti e in più abbiamo scelto un’alimentazione basata sulle proteine animali. Entrambi i fattori sono la premessa di ciò che sta accadendo su scala globale. Il sovraffollamento spinge le società ad invadere sempre di più l’ambiente naturale portando l’uomo e le sue attività a contatto con sistemi, eco-sistemi, non controllabili. Un esempio? Gli allevamenti bovini piazzati nel cuore o ai margini dell’Amazzonia, fucina straordinaria di Madre Natura in cui tuttavia prendono vita anche patogeni per la maggior parte ancora sconosciuti. La necessità alimentare, invece, ci sta spingendo a divorare il regno animale. Si, perché oltre alla diretta uccisione delle specie domestiche (maiali, pecore, mucche, galline) e di quelle selvatiche (cinghiali, squali, tonni, balene, ma anche primati e tanto altro) operata per scopi alimentari, c’è un diradamento indiretto della fauna selvatica correlato agli allevamenti. Nessuna verità svelata ma semplice evidenza a cui non abbiamo prestato la dovuta attenzione. Ciò che è preoccupante però è che anche ora, dal chiuso di questa quarantena, stiamo provando a defocalizzare il problema. Istituzioni e cittadini stanno facendo la voce grossa con la Cina da dove, obiettivamente, partono la maggior parte delle epidemie virali prodotte da spillover.
È vero, la Cina è tra i paesi con più strada da fare in tema di diritti animali, è vero, la Cina possiede la concentrazione più alta di “mercati umidi”, luoghi percorsi da acqua e fluidi organici misti, in cui pezzi di animali morti sono esposti in prossimità di animali domestici e selvatici vivi, sani o malati, tenuti in condizioni disumane. Quello che però non ricordiamo è che il tristemente famoso Morbo della Mucca Pazza, l’encefalopatia spongiforme bovina, non è stato un prodotto dell’oriente ma del tecnologicissimo e civilissimo occidente; non era un virus ma il risultato di una delle tante, necessarie pratiche di ottimizzazione produttiva dell’industria alimentare. Il morbo ha spento vite umane come fanno gli attacchi virali, come fanno tante altre affezioni episodiche o endemiche di cui poco si parla. È il principio stesso dell’allevamento a fondarsi sul contenimento sanitario. Chi vi lavora sa che ogni giorno è necessario epurare i capannoni dagli animali morti, somministrare farmaci in dosi massicce e costanti (e ricordiamo a tal proposito che l’antibiotico resistenza affonda una buona parte delle sue radici negli allevamenti), contrastare gli effetti organici dello stress cui sono sottoposti esseri viventi obbligati a convivere ammassati, senza alcuna gerarchia sociale, logica di branco, possibilità di organizzare il proprio spazio in base ad esigenze codificate per natura. Allevare purtroppo significa trattare gli animali come oggetti a cui far raggiungere un peso ottimale per la macellazione. E poiché oggetti non sono… si ammalano.
Rivedere il nostro rapporto col cibo può essere il punto di svolta. Siamo in uno stadio della civiltà in cui un salto di consapevolezza oltre che etico non sarebbe altro che un processo di secolarizzazione come tanti ce ne sono stati. L’assunto dogmatico di un’alimentazione onnivora può essere messo in discussione, ne abbiamo le competenze e la capacità culturale. Il passaggio a un’alimentazione vegetale disegna scenari migliorativi, per noi, per gli animali, per il Pianeta stesso. Non solo concluderebbe un capitolo doloroso che ciclicamente siamo costretti a riaprire sotto gli attacchi di morbi sempre più preoccupanti ma ci traghetterebbe verso un risanamento del problema climatico (che pure gioca un ruolo chiave nella tutela della salute umana), grazie alla contrazione dei gas serra, alla restituzione di ettari di terreno e milioni di litri di acqua alle foreste; renderebbe più equa la distribuzione alimentare nel mondo, obiettivo, quest’ultimo che dovrebbe essere prioritario per tutti.
Occorre ripensare il nostro ruolo sul Pianeta. L’insegnamento che questo evento ci sta regalando è che, tecnologia, conoscenza, progresso devono lavorare di concerto con il meraviglioso ingranaggio della natura e non in sua opposizione. È quindi tempo di scelte coraggiose e piene di nuovo entusiasmo, è tempo di costruire l’armonia.
Alessandra De Sio
Direttrice Legambiente Salerno
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